Caleidoscopico, duttile, eclettico, molteplice, polimorfo, sfaccettato, variegato, versatile. Questi, secondo la Treccani, i sinonimi dell’aggettivo “poliedrico”. E questi stessi aggettivi sono ciò che più si addice ad una personalità come quella di Alessandro Raina.
Giornalista, scrittore, cantante, musicista, autore…
Alessandro comincia presto. Nel 1998, dopo un incontro con Giacomo Spazio, fondatore della etichetta indipendente Vox Pop, nasce Colonia Paradi’es, disco contenente vecchie registrazioni su nastro e fotografie che raccontano la storia di Montalto Pavese, paese situato nel territorio in cui Raina è cresciuto.
Da quel momento in poi è un susseguirsi di progetti singolari ed innovativi.
Nel 2012 arriva poi una firma importante: un contratto di esclusiva per Universal, entrando ufficialmente a far parte del team di autori della major.
Ed è una pioggia di collaborazioni: Paola Turci, Emma, Deborah Iurato, Club Dogo, Marco Mengoni, Luca Carboni, Francesco Renga, Raphael Gualazzi, The Giornalisti…
Fino ad arrivare a questo fortunato 2018, che lo vede, nello spirito, sul palco del 68esimo festival di Sanremo, con ben due canzoni.
Lo abbiamo incontrato e ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda.
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Hai fondato e militato in diverse band e in diversi progetti (I Giardini di Mirò e gli Amor Fou, giusto per citarne alcuni). Poi, nel 2012, la firma con la Universal, contemporaneamente all’uscita di “3 cose”, scritta da te per Malika Ayane. Ma la tua passione per la scrittura è cresciuta insieme a quella per la musica, come testimoniano le tue esperienze come giornalista e scrittore.
Qual è, se c’è, la differenza più grande tra scrivere una canzone per se stessi o per affidarla ad altri?Le differenze sono moltissime, soprattutto perché innanzitutto il tuo modo di scrivere una canzone cambia con il tempo, si arricchisce e varia in base alle tue competenze tecniche, all’esperienza, alle influenze, a quanto ti interessa sviluppare un linguaggio al passo coi tempi ecc. ecc. Oggi anche un cantautore maturo ha, credo, il dovere di confrontarsi con gli strumenti disponibili per fare musica, che non sono più solo chitarre e pianoforti ma in primis i software, così come di tenere conto delle influenze, dei generi non canonici, come ad esempio il rap e i suoi derivati, che sono entrati a far parte della musica popolare. Quando scrivi per te paradossalmente tendi a mascherarti di più dietro all’immagine che vuoi incarnare, ed è difficile trovare un equilibrio fra sincerità e proiezione. Scrivere per altri ti concede più libertà, l’interprete farà suo il brano e proprio per questo puoi metterci dentro la tua vita, protetto dal fatto che certi elementi non verranno direttamente associati a te, ma ricondotti al cantante che li interpreta. Musicalmente non c’è molta differenza, posto che quando scrivi per altri la produzione e quindi il suono, ossia il vestito del brano, saranno scelti da un produttore, che potrà migliorare o anche snaturare la canzone che gli hai consegnato. Quando produci la tua musica hai il timone in mano, controlli e influenzi ogni passaggio che porta dalla scrittura iniziale al brano finito che la gente ascolta.
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Quest’anno avrai ben due canzoni in gara alla 68esima edizione del festival di Sanremo: “Il mondo prima di te” di Annalisa (scritta insieme a Davide Simonetta e la stessa Annalisa) e “Frida” dei The Kolors (scritta insieme a Petrella, Faini e allo stesso Stash). Di cosa trattano questi brani?
Il brano di Annalisa è una ballata che definirei astratta intimista. Rappresenta, come presumibile dal titolo, una riflessione sul rapporto di coppia, immaginando i possibili sviluppi di un rapporto, sia ripensando a quello che, giocoforza, si sacrifica di sé vivendo un rapporto. Mi piace però il fatto che non sia una canzone melodrammatica come alcune interpretate da Annalisa in passato. Erano anni che avrei voluto ascoltarla in una modalità più ‘nordica’, rarefatta, epica, perché sono tratti che associo alla sua straordinaria vocalità molto più delle sfumature mediterranee, molto liriche, di tante ballate d’amore sanremesi. Il brano dei Kolors è nato da una strumentale elettronica molto catchy, piena di ritmo ed atmosfere esotiche, quasi mediorientali e il testo è una sorta di flusso di coscienza, una diapositiva ispirata alla passione di un personaggio femminile, Frida appunto. Sarà Frida Kahlo? Sinceramente non lo sappiamo neppure noi.
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Passami il paragone calcistico, ma non è un po’ come avere due figli, uno che gioca nell’Inter e uno che gioca nel Milan, e assistere al derby? Come la vivi?
In realtà sono totalmente disinteressato all’aspetto competitivo delle manifestazioni musicali. Ovviamente mi piacerebbe vincere come forma di coronamento del lavoro fatto in questi anni più che nella fattispecie del concorso in sé. Anche perché il successo di questi brani, per chi li scrive e li canta, si misura in mesi e anni, attraverso la radio, le classifiche, le vendite dei dischi, i concerti. Sanremo è solo una grande vetrina, un grande salone espositivo. -
Hai avuto modo di ascoltare gli altri brani in gara? Che ne pensi?
Ne ho ascoltati pochissimi e hanno pienamente corrisposto alle mie aspettative, nel bene e nel male. Il brano di Max Gazzè è l’ennesimo grande momento d’arte di questo nobile alfiere della bella musica.
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Che differenza c’è, a livello emotivo, tra essere cantante ed essere autore? Provi lo stesso coinvolgimento e le stesse emozioni quando a cantare un tuo brano non sei tu ma un altro artista?
La performance è un’esperienza molto fisica, molto rituale e al contempo sorretta da una tecnica, completamente diversa dalla creazione in senso canonico, a meno che la creazione non nasca essa stessa da una performance e sia quindi frutto di un’improvvisazione, magari proprio sul palco. Ma questo avviene con la musica strumentale, elettronica o con il freestyle nel rap, non credo sia possibile scrivere Almeno tu nell’universo improvvisando per tre minuti durante un concerto.
L’emozione che provi ascoltando un tuo brano cantato da un grande interprete tocca aspetti interiori molto profondi, condiziona la tua autostima, la consapevolezza, influenza l’ambizione, ed è ovviamente, almeno per me, un’esperienza sempre stupefacente e inattesa.
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Si parla spesso molto male della musica italiana degli ultimi decenni, come se il bello si fosse fermato agli anni 70. Che ne pensi? È davvero così deprimente la situazione?
È un discorso lungo e pieno di sfaccettature. Mi limito a dire che se fra gli anni ’60 e i ’90 la musica italiana ha ospitato decine di veri e propri fuoriclasse, alcuni dei quali tuttora protagonisti, dall’alto di carriere pluridecennali, come Vasco, Eros, Laura Pausini, Gianna Nannini, Zero, Carboni, De Gregori, ed altri, come Carmen Consoli, Capossela, Jovanotti, Ferro o Cremonini, giunti alla piena maturità, anche anagrafica, è difficile, classifiche alla mano, pensare a chi potrà raccogliere il testimone di generazioni così straordinarie. Ci sono alcuni grandiosi interpreti come Malika o Marco Mengoni, ma le uniche due certezze assolute che mi vengono in mente se dovessi consigliare musica italiana a un amico straniero sono Fabri Fibra e i Verdena, due che non potresti mai vedere a un festival o a un talent. È vero che la musica oggi vive e si consuma in tempi molto più ristretti, che cambiano i fruitori e gli stili si rinnovano, ma se in altri mercati vedo una continuità in termini di eccellenza, o in parole più semplici vedo nascere con una certa continuità i Bruno Mars, gli Stromae, i Justin Timberlake, le Rihanna, i Kanye, le Beyoncé, i Coldplay, gli Arcade Fire, gli Imagine Dragons o gli Ed Sheeran, in Italia il livello generale, rispetto alle generazioni passate, si è oggettivamente abbassato. Credo però sia un discorso da affrontare in termini più ampi, non solo musicali, legati alla dimensione culturale, politica, sociale dell’Italia degli ultimi trent’anni.
Ringraziamo Alessandro e gli facciamo il nostro grandissimo In Bocca al Lupo. Siamo ansiosi di ascoltare i suoi brani in gara.